sabato 25 giugno 2011

Lunar Park - Styling













Mikael Kennedy - Interview


Quello che più mi affascina di Mikael Kennedy è il suo spirito libero, me lo sono immaginato più volte durante i suoi viaggi come un giovane Kerouac che brama esperienza, quella pura nel bene e nel male, quella che fa sentire vivi e ti appaga mentre la provi. Mikael questa sua realtà l’ha continuata a documentare nell’arco di un decennio attraverso le sue magiche Polaroid; scatti fermati di momenti irripetibili, di una vita trascorsa viaggiando, alla ricerca di tutto e niente se non il rendere la propria esistenza straordinaria come una barca che anela il mare ma non lo teme.

Sono circa più di dieci anni che documenti la tua vita attraverso le Polaroid, mi racconti come è iniziato il tutto?

Ho trovato una SX70 in un robivecchi durante il ritorno da un viaggio, ricordo che ho visto questa bellissima macchina fotografica, e l’ho presa. Non ne sapevo molto ma col tempo è diventata un’ossessione. In quel periodo vivevo in Massachussetts, cominciai a
costruire una griglia di Polaroid sul muro di camera mia, continuando ad aggiungerne. Non c’era nessuna premeditazione, così come capitava, continuavo anche a fotografare la mia cara amica Mandy Lamb (www.1977.lamb.com), abbiamo viaggiato molto insieme e nello stesso periodo anche lei ha iniziato a fare fotografie con la Polaroid. Ho vagato per tutta la nazione, vivendo in diversa città, accampandomi sul divano di amici, vivendo in ripostigli come un vagabondo, con solo lo zaino. Mi sono trasferito in Serbia per un breve periodo e poi sono andato a Brooklyn, che negli ultimi cinque anni è diventata la mia base. Ad un certo punto mi sono accorto che avevo sempre la macchina fotografica in mano.

Credo che tu non stia semplicemente documentando la tua vita attraverso le tue Polaroid, non è solo un semplice reportage c’è ben altro: sentimenti, idee e storie che tu probabilmente hai già in mente. Sbaglio?

C’è una citazione di Carl Jung a cui penso spesso: “Non importa se la storia che racconto sia vera o non, quello che importa è se la storia è la mia verità”. Mi piace quest’idea. Non m’interessa l’arte che non ha una propria anima. Ci sono delle persone che mi scrivono e mi dicono che osservando le mie Polaroid si sentono nostalgici per una vita che non è la loro. Negli ultimi anni mi sento come se fossi dentro e fuori del controllo della storia, a volte la conduco da qualche parte intenzionalmente, altre la rincorro costantemente, cercando di capire cosa sta accadendo. In questo momento il mio blog sta lavorando, come la mia ombra, è solo un paio di settimane dietro di me. Cerca sempre di restare aggiornato. Forse in questi giorni ho il controllo.

In questi dieci anni vedi cambiato il tuo modo di fare fotografia? È diventato sempre più istintivo o impulsivo? Vedi qualcosa che coglie la tua attenzione e la fotografi oppure vai in giro a cercare qualcosa in particolare?
La risposta più semplice che posso dare è che si tratta della mia vita, niente più di questa, se non il fatto che cerco di renderla il più interessante possibile. La maggior parte delle foto che faccio accadono mentre sono in giro a fare un a passeggiata. Vedo qualcosa che colpisce il mio sguardo ed è fatta, con le Polaroid non ho regole, non so ciò che apparirà o non nella fotografia. Mi limito a catturare ciò che attira la mia attenzione, a volte è solo il fatto di come la luce colpisce certe cose, o di come percepisco i miei amici. Direi che sono sempre in giro alla ricerca di qualcosa, ma di che cosa si tratti non lo so, forse di una qualsivoglia esperienza.

Hai pubblicato il settimo volume di questo tuo continuo lavoro, mi parli del legame che esiste tra questi libri e delle loro differenze?

I libri ed il blog hanno cominciato ad esistere circa a metà del corpo di lavoro. Ad un certo punto avevo scatole su scatole piene di fotografie e volevo farne qualcosa. Ho un amico che lavora da Kinko a Portland, Oregon, così gli ho mandato tutti i layout del primo libro e la notte li ha stampati mentre il suo capo non l’avrebbe visto. Poi me li ha spediti. Ho graffettato cinquanta copie del primo volume e sono partito dal lì. Il blog invece è iniziato un pochino prima, come ti dicevo stavo cercando un posto dove mettere tutte queste immagini, penso avessi bisogno di iniziare a dare un senso a ciò che stavo facendo. Ora circa una o due volte l’anno colleziono tutti i post del blog, faccio un editing e pubblico un nuovo libro, generalmente ogni libro racchiude sei mesi del mio cercare. Sono diventati delle visioni molto personali di ciò che è la mia vita e di quello che pensavo in quel momento. Il terzo volume è stato chiamato The Castle & The Kingdom perchè durante quel periodo della mia vita ero dentro e fuori New York City, che era un posto molto dark per me a quel tempo. Mi sentivo veramente diviso tra la città, in cui mi sentivo intrappolato, e la terra, in cui mi sentivo libero. Il settimo volume appena uscito è una piccola collezione d’immagini scattate con un particolare tipo di pellicola Polaroid, ne possedevo un misero quantitativo così ho fatto il maggior numero possibile di ritratti a persone che avevo già fotografato durante gli anni prima che finissero. Non so dirti come sarà l’ottavo volume, fino a quando non mi siederò cercando di dare un senso all’ultimo anno della mia vita. Funziona così.

Le tue Polaroid sono semplicemente belle, cosa rende magico per te questa fotografie?
Niente assomiglia ad una Polaroid. Ogni fotografia è un piccolo esempio di vita catturata in bordi bianchi. Per me è la più vera forma di fotografia, perchè ciò che vedi è ciò che è successo. Non c’è possibilità di manipolazione digitale, non c’è lo zoom, ogni fotografia scattata è lì in quel momento.

Quindi per il fatto che sono pezzi unici, dei piccoli pezzi d’arte e che non possano essere manipolati, credi abbiano un potere maggiore rispetto alle digitali?
Per me avere una fotografia che sia un pezzo unico è fondamentale, troppo del mondo moderno è riproducibile facilmente, le cose stanno perdendo il loro valore. Ogni Polaroid è un momento catturato che non esisterà mai più, soprattutto ora che alcuni tipi di pellicole non esisteranno più.

Mi piace molto la luce che c’è nelle tue foto, è come se tu fossi catturato dal momento in cui la luce colpisce direttamente qualcosa assumendo quest’aura evanescente.
Un giorno quando avevo circa tredici o quattordici anni ho scoperto che non sarei morto, ricordo che stavo andando a scuola e notai il modo in cui la luce colpiva le cose, tutto mi sembrava bellissimo. A volte la luce può avere diversi significati, ad esempio durante una conversazione con una persona gli s’illumina lo sguardo e io voglio coglierlo.

Ho letto da qualche parte che hai venduto il tuo sangue per avere dei soldi per comprarti le pellicole della Polaroid, confermi?

Sì. Fa parte del passato, è successo nel 2002 quando vivevo a Seattle, ci andavo circa due volte alla settimana. Ho smesso perchè un giorno tutto il mio braccio è diventato blu e nero, è stata una scena bizzarra.

Hai viaggiato moltissimo, possiamo ancora considerare vera la citazione di Kerouac che dice: “we had longer ways to go. But no matter, the road is life."?

Sono cresciuto con Kerouac. Sì. E adoro questa citazione. Una delle mie preferite è anche quella di Dharma Bums: “I see a vision of a great rucksack revolution, thousands or even million of young Americans wandering around”. Comincio a scalpitare se resto seduto a lungo.
T’immagino come un poeta che va in giro per il mondo ma anziché scrivere le sue poesie su carta le riversa su Polaroid. Come vedi te stesso?
Vedo me stesso più come un narratore di storie che per farlo usa qualsiasi mezzo a sua disposizione. Quella con le Polaroid è una storia molto lunga.

La cosa che mi piace di più nel viaggiare, è quando ti ritrovi in posti, situazioni o a fare cose a cui non avresti mai pensato, ti è mai successo?

olitamente non pianifico nulla quando viaggio, se non l’andare a far visita ad amici. Poi tutto quello che viene dopo è semplicemente meraviglioso sia che finiamo con l’andare a scalare una montagna sia che siamo al tavolo della cucina a sorseggiare un caffé. Per me ogni singolo momento è importante.

Cos’è che stai ancora cercando?

In realtà nulla, anche se suppongo tutto, esperienze buone e cattive. Ci sono stati dei momenti davvero tristi, in questi dieci anni, ed altri incredibilmente magnifici. Voglio vedere ogni cosa prima di morire. Ci sono una lista di Polaroid che vorrei scattare prima di finire tutte le pellicole; un tornado, una balena, i fulmini e cose di questo tipo.

Credi che smetterai mai di documentare la tua vita?

Credo che terminerò le pellicole molto presto, e dopo quel momento di nuovo non ho piani.

Alex Prager - Interview


Alex si è avvicinata alla fotografia a ventenne e da quel momento che non l’ha più abbandonata. Il suo spirito indipendente l’ha portata ad imparare quest’arte da sola. Ricordo che la prima volta che ho visto una sua fotografia, sono stato trasportato in quel mondo dai colori forti e disitnti tipici della Los Angeles degli anni 60. Le donne, come Eve, Emily, Crystal, Lois, Rita e tante altre sono le protagoniste delle foto di Alex, sono impeccabili, anche se dietro i loro rossetti rossi o le loro parrucche, nascondono drammi e malinconie tipiche delle donne hitchcockiane,con un continuo richiamo tra l’apparenza e la realtà, come se il suo intento fosse quello di documentare un mondo che esiste e che non esiste allo stesso tempo, dove dietro il glamour può celarsi anche il melodramma.

Potresti raccontarmi qualcosa del tuo background? Ho sentito dire che hai viaggiato tantissimo nella tua infanzia...

Sono nata a Los Feliz in California. Non sono andata ne alla high school ne in una scuola d’arte. Ho trascorso il miei anni da teenager viaggiando tra l’Europa, la Florida e Los Angeles.

Sei quindi una fotografa che ha imparato da sola, quando è inizato il tuo approccio alla fotografia?

Dopo essere tornata a Los Angeles dopo aver viaggiato per l’Europa, non sapevo cosa avrei voluto fare professionalmente. Dovevo mantenermi, così ho iniziato con diversi lavori alcuni dei quali terribili. Ero entrata nel così detto giro di lavoro da ufficio e spendevo i miei soldi per il cibo, i vestiti, i viaggi e i CD e poi dovevo vendere i miei vestiti e i miei CD per pagarmi l’affitto. Niente mi emozionava particolarmente così cominciai a pensare che forse quello che stavo vivendo poteva essere la vita che avrei potuto vivere da adulta così decisi di fare in modo di cambiare qualcosa. Cominciai così ad andare nei musei e nelle gallerie d’arte per vedere se c’era qualcosa che fossi in grado di fare in quel campo, perchè sapevo che dovevo fare qualcosa di creativo. Finii al Getty museum e per caso vidi l’esposizione di William Eggleston, non avevo nemmeno preso in considerazione la fotografia fino a quel momento. Vidi una fotografia quando entrai nella stanza e capì in quel momento che ciò che avrei fatto sarebbe stata la fotografa. È stato istintivo. Comprai una macchina fotografica il giorno successivo e l’attrezzatura per la camera oscura tre giorni dopo.

Quanto tempo impieghi a pensare a che foto vuoi scattare? Quando fotografi l’immagine è diversa da quella che avevi in mente o è quasi simile a quella ti eri immaginata?

Non è mai come me l’ero immaginata, ma suppongo che è questo che rende fotografare interessante. Solitamente spendo circa una settimana nel processo di preproduzione, considerando tutti quei piccoli dettagli che faranno parte dell’immagine e poi faccio il servizio. Quello che viene dopo è il panico ovvero quando guardo i miei negativi e che forse potrebbe non esserci nulla che posso utilizzare, ed ore ed ore a far fronte e a tentare fino a quando non mi accorgo di avere davanti qualcosa che amo. Questo è generalmente il processo generale di ciascun mio servizio fotografico. Indosso il cappello da fotografo nella prima parte, e poi quello da pittore nella seconda parte. È alquanto esasperante.

Trovo divertente che tutte le tue modelle indossino delle parrucche, come mai questa decisione?
È un cuscinetto carino tra il mondo reale e questa esagerata versione del mondo in cui vivono i miei soggetti. Credo che il lato gloss delle mie immagini aiuti le persone ad osservare le mie foto.

È vero che ti occupi tu stessa dello styling delle tue fotografie?

Sì. Mi occupo anche di del set design, delle luci, più o meno di tutto. La superficie estetica si relaziona direttamente a che impatto c’è con la comunicazione sott’intesa, per questo motivo tutto deve essere così specifico.

Ci sono un sacco di riferimenti del passato nello styling delle tue fotografie, è come se le tue donne scaturissero da un’era passata, dove le donne erano più femminili e sofisticate, come mai questa scelta specifica?

La drammaticità di tutti quei vecchi film era accresciuta da tutto quel makeup, dai costumi e dalle luci tutto era al meglio. Visivamente, niente sembrava così reale tanto che ci allontanava con tutto continuamente dal lato narrativo. Ora molti film tendono ad essere il più reali possibili alla vita reale, che suppongo uno debba fare più attenzione a ciò che vuole raccontare.

Molte tue immagini sembrano avere dei riferimenti ai lavori di William Eggleston e di Jeff Wall
Amo i loro lavori, sono totalmente ispirata da loro come da molti altri come Weegee, Brassai, Arbus, Joel Sternfeld, Guy Bourdin, Helmet Newton, Maya Deren, Salvidor Dali, Man Ray, Bruce Gildon e DiCorcia. Sono tutti dei grandi.

Ho visto il tuo cortometraggio Despair, è molto carino perchè e come se avessi portato le tue immagini ad un altro livello: la vita. Com’è stata quell’esperienza?

È stata un’esperienza incredibile: la storia che c’è dietro il film è nata dal fatto che volevo fare vedere che cosa ci fosse prima, durante e dopo una mia fotografia. Sì esattamente come hai detto tu volevo portare in vita una mia fotografia per pochi minuti. Il film infatti dura solo tre minuti e trenta. Non avevo assolutamente alcuna idea di dove mi sarei trovata una volta iniziato questo progetto, c’è stato tantissimo lavoro, ma ora che so come si fa ti dico che ne voglio fare molti altri in futuro. Fare dei film è completamente un mondo diverso.

Mi piace il dramma ed il melodramma stilistico alla Alfred Hitchcock e David Lynch che evocano i tuoi lavori, me ne parli?
Come ti ho detto i lavori di William Eggleston mi hanno portato ad essere una fotografa, quando ho visto le sue immagini la prima volta non potevo comprendere come qualcosa che al primo sguardo sembrasse uno snap shot mondano potesse drammaticamente avere un effetto sul mio modo di sentire. Questi piccoli e colorati snap shot noiosi cambiarono completamente il mio modo di vivere fino a quel punto. David Lynch è un grande come lo sono stati Fellini e Godard, lui ebbe il talento di mettere queste strane idee che aveva nella testa sulla schermo in modo che tutti potessero vederle. È per me una grande fonte d’ispirazione e mi porta a credere che tutto sia possibile.

Jon Claytor - Interview


I quadri di Jon Claytor sono carichi di tensione cinematica, inseriti in un contesto naturale e scarno, sono ricchi di emozioni. I loro protagonisti sono per la maggior parte bambini ed adolescenti che sembra abbiano interrotto momentaneamente qualsiasi cosa stessero facendo per essere immortalati da Jon. L’abilità del pittore è quella di essere stato in grado non solo di mettere in pausa questo momento, ma di rivelarci tutto quello che sta accadendo all’interno di questi protagonisti, svelandoci i loro stati d’animo; impazienti, vulnerabili ed innocenti.

Il rapporto con la natura è sempre stato un elemento importante nella vita di Jon, ecco perchè anche gli animali, soprattutto gli orsi, sono spesso presentati nelle sue opere, come se l’artista si riconoscesse come uno di loro. Mi racconti qualcosa del
tuo background?

Ho appena compiuto trentanove anni e mi sono trasferito di recente da New Brunswick, una piccola cittadina, a Toronto dove vivo con la mia sexy fidanzata e cinque figli. La mia giovinezza l’ho trascorsa attraversando lo Stato con i miei genitori. Mio padre è un biologo così abbiamo trascorso diverse estati nella natura selvaggia in tenda, mentre lui contava tutte le cose che vivevano nei fiumi. Mia madre mi ha insegnato a fare dei giocattoli con i rami e a volte guardavamo gli orsi mentre “scaricavano”. Anni dopo sono diventato una sorta d’artista. Ho esposto da L.A. ad Halifaz e la mia più recente mostra l’ho fatta a Tel Aviv nel giugno 2010, si chiamava Small Adults.

Da dove viene la tua passione per la pittura? È qualcosa a cui ti sei avvicinato da solo o qualcuno ti ha introdotto a questo mondo?

Mia madre era una pittrice ed una brava disegnatrice. Poteva disegnare come un angelo. Aveva un’ardente passione per l’arte e i suoi disegni mi facevano paura quando ero piccolo. Un’emozione così grande. Ho sempre voluto creare qualcosa con quel genere di forza, per me era come se solo qualcuno con abilità sovraumane potesse fronteggiare quel genere d’incontrollata emozione.

Chi sono i protagonisti dei tuoi quadri? Ci sono molti bambini...

Per me i bambini sono le persone più coraggiose. Loro affrontano un mondo informe armati solo delle loro nozioni predeterminate e della loro ingenuità. In molti modi la nostra transizione all’età adulta è uno spostamento verso un mondo più sicuro dove i demoni sono solo una nostra creazione. Ecco perchè li dipingo.

Hai anche una grande passione per gli animali, in particolare gli orsi, amo come li rappresenti, da dove nasce quest’interesse?

Gli animali rappresentano per me, aspetti differenti della nostra lotta umana. Ho iniziato a dipingere orsi che ballano perchè era come mi sentivo, come se mi fosse richiesto di ballare! Ballare! Ballare! Mille volte. Come se tutto ciò che avessi potuto vendere era la mia anima, ed il prezzo era abbastanza per un drink di scarsa qualità. Sono anche ingrassato. Come un orso. Ora le volpi sono il retro del disco, così amabili, abili che vivono al limite. Il coyote è sleale. Amo il coyote.

I tuoi quadri nonostante siano arte figurativa, sono anche colmi di sentimenti ed emozioni noir. Come vedi la tua arte?
Mi piace camminare e mentre lo faccio mi piace pensare, ascoltare e scivolare nell’etere. Nell’altro mondo, nel mondo dei sogni dove le emozioni sono grandi come gli edifici governativi, e spingono dalla terra, in momenti di gloria, e tremano dopo la rivoluzione. Il nostro mondo è freddo e calcolatore e la beffa è tutto quello a cui noi rispondiamo. Ho il cuore tenero.

Alcuni dei tuoi quadri rappresentano teenager con il tipico atteggiamento riot, mentre sono ubriachi o hanno la faccia truccata da Kiss. Hai qualche ricordo in particolare dei tuoi anni da teenager?
Sì. In una cittadina del Canada facevamo dei ditch party, che altro non erano se non un gruppo di adolescenti che s’incontra nei boschi, in un campo o in una strada chiusa e portano birre e liquori. Alcuni vengono a piedi altri in macchina, magari tre macchine per una quarantina di ragazzi. Bevi, alcuni vengono pestati, altri trovano l’amore. Il quadro a cui ti riferisci riguarda tutto questo; l’atteggiamento, il pavoneggiarsi, l’intimidazione e la vulnerabilità. C’è molta forza, molta paura e molta esperienza nuova. L’adolescenza è il periodo della nostra vita più disperato e di belle speranze.

Da dove prendi anche ispirazione per i tuoi lavori: dai film, dalla musica, dove?
Vado al cinema durante il pomeriggio e dopo dipingo. Film brutti. Thriller e film d’azione. Questi film mi parlano e mi spingono a creare. Ingigantiscono il tutto e posso così relazionarmi a grandi emozioni e rivelazioni. Poi immagino che siano film minori e discreti, acuti e emotivi, non vistosi e chiassosi. Poi dipingo. Mi piace molto anche la fotografia come quella di Nan Goldin, Sally Man e Cindy Sherman.

É difficile per un pittore capire quando un quadro è finito? Soprattutto se usi i colori ad olio, che possono essere costantemente ritoccati...

I miei quadri non sono mai finiti, continuo a ritoccarli fino a quando non mi sono sottratti dalle mani. Spesso metto in mostra lo stesso quadro più volte, rilavorandolo ogni volta. Ogni volta mi dico: “ è finito”, ma poi cambio idea e i quadri cambiano. A volte muoiono e li dipingo completamente di nero o di bianco e ricomincio tutto da capo.

Secondo te un artista dipinge per se stesso o per raccontare agli altri la propria verità?
Vorrei saperlo. La mia verità è così semplice ed ingenua. L’amore. Sta tutto lì. Dipingere per me stesso? Cosa significa? Un atto compulsivo, un piacere, una distrazione. Dipingo perchè è ciò che sono, un pittore. Non è colpa mia.

Osservando i tuoi quadri ho avuto la sensazione come se i soggetti che tu hai ritratto si fossero fermati d’innanzi a te per il tempo del quadro e poi si fossero mossi di nuovo. Come riesci a dare questa tensione della loro vita?

È esattamente così. Provo a fermare questi momenti nella narrativa della loro vita. Faccio questi piccoli film intorno a loro. Si fermano e poi continuano. Sono registrazioni di un momento. Come l’arte rupestre che è una testimonianza. Noi eravamo qui. Noi eravamo qui.

Mi hai detto che hai dei bambini? Gli hai insegnato a dipingere?

Come ti dicevo ho cinque bambini da uno ai sedici anni. Sono loro che m’insegnano a dipingere, a ridere, a piangere. I più giovani sono gemelli, loro t’insegnano quanto siamo diversi ed uniti allo stesso tempo. Mia figlia di nove anni desidera sempre amore, entusiasmo e sorprese. M’insegna a vivere. Quella di tredici anni è un atleta e m’insegna a provare duramente, e a ridere. Mio figlio di sedici anni è un sognatore ed è molto pigro. M’insegna ad essere un artista ed a rilassarmi. Spero d’insegnargli che la vita va vissuta per fare in modo che i sogni si avverino ed anche il solo provare è tutto ciò che possiamo fare perchè la maggior parte dei sogni sono morti nell’acqua.

Collezioni i loro disegni? Li hai appesi al frigorifero?

Sì. Siamo immersi fino alle ginocchia dei loro disegni. Abbiamo scatole piene, sono appesi al frigorifero e riempiono i nostri scaffali. Quantitativamente producono molto più di me. Ed è tutto buono.

A cosa stai lavorando ultimamente?

Sto dipingendo i protagonisti dei miei quadri preferiti sin da quando ero bambino come il pierrot di Watteau, i nani di Valesquez e sto facendo un film sull’essere un uomo, un bambino e una donna per un anno nella rurale New Brunswick.

La Sera - Photography



Dustin O'Halloran - Styling/Interview




Dopo numerose domeniche mattine passate a consumare nello stereo i suoi precedenti album Piano Solos e Piano Solos vol.2 incontrare Dustin O’Halloran è stato come trovarsi finalmente a parlare con colui che ha creato la colonna sonora di alcuni momenti della mia vita. Con mio grande piacere l’uomo che mi parlava era un gentleman, distinto e conscio del fatto che la musica che compone ha la capacita di evocare emozioni nella mente di chi ascolta, senza grandi pretese, lasciando aperta la libera interpretazione, in modo tale che ognuno di noi ci si possa ritrovare, specchiare ed eventualmente trovare una compagnia per alcuni momenti della propria esistenza.


Credo che la musica strumentale possa essere molto più personale, perchè non offre la possibilità di nascondersi dietro alle parole, che ne pensi?

Si sono d’accordo, credo inoltre che sia più spirituale, scrivere testi è molto più terra a terra perchè si possono raccontare storie personali od umane in genere. La musica strumentale invece va oltre, ed è per questo che mi piace, perchè diventa senza spazio, non riguarda soltanto il compositore, ma le persone possono aggrapparsi con i loro sentimenti alla musica.

La tua musica ha per me la capacità di andare sotto la pelle di chi l’ascolta e d’incominciare a vivere con essa in un susseguirsi di pure emozioni.

Ciò che m’interessa non è tanto spiegare alle persone quali sono i miei sentimenti che si celano nella musica che compongo, ma spero che chi mi ascolta possa ritrovare in essa i propri sentimenti e le proprie emozioni, ed è per questo motivo che la maggior parte delle mie canzoni non hanno dei titoli. Perchè penso che titoli profondi o semplici come Sunday Morning dicano già troppo.

Ma in Lumiere ad alcune canzoni hai dato un titolo. Come mai?

Non lo so. È una cosa che ho deciso in quel preciso momento. È la prima volta che assegno dei titoli ed allo stesso tempo ritengo che siano ambigui, posso essere relazionati a qualsiasi cosa. Mi piace lasciare molto spazio agli ascoltatori. Sopratutto con questo genere di musica, tutti possono interpretarla a modo loro, la cosa meravigliosa è che ognuno può trovare così tanti significati ed è quindi aperta a tutti. Credo inoltre che la musica sia forte abbastanza da non dover mettere altri strati per spiegare me stesso o i miei sentimenti, è giusto per me che ognuno sia libero di cogliere ciò che sente.

Essendo abituato ad ascoltare i tuoi precedenti lavori Piano Solos e Piano Solos vol. 2 quando ho sentito Lumiere per la prima volta mi sono accorto di un netto cambiamento, è come se la palette dei colori che c’erano nei due precedenti album si fosse ampliata, avendo questa volta composto anche per altri strumenti. Mi parli di questo cambiamento?
Infatti è più o meno così. Mentre stavo componendo per questo album ho letto molto riguardo la sinestesia, la condizione in cui si possono vedere dei colori nel momento in cui si sta ascoltando la musica. Ho fatto degli studi riguardo a dei pittori che avevano questa condizione come Kandinsky e Rothko. Credo che ci sia una condizione comune tra i pittori ed i compositori che è la solitudine, perchè quando creiamo lo facciamo da soli.

Non credo di essere in grado di vedere dei colori ascoltando la tua musica ma posso dirti che se dovessi immaginarmi dei colori sarebbero sicuramente dei blu e ogni tanto rosso vermiglio.

Per me il fatto di aver composto per altri strumenti è stato come se avessi aggiunto atri colori e movimento. Sicuramente ognuno è in grado d’immaginarsi dei colori che rispecchiano lo stato d’animo nel preciso momento in cui stanno ascoltando musica. Per me è stato molto stimolante il fatto di scrivere per altri musicisti e quindi altri strumenti, anche se il piano ha sempre il ruolo da protagonista.

Al primo ascolto di Lumiere mi sono sentito leggermente spaesato per la presenza di altri strumenti,poi però mi sono accorto che è sempre il piano lui ad avere il ruolo da protagonista e mi sono sentito come a casa che dici?

Certamente! Il piano per me è lo strumento con cui credo di avere una forte relazione, il piano è sempre l’origine anche di questo nuovo album, credo sia uno strumento senza fine con cui un pianista non possa mai sentirsi finito, ci sono così tante possibilità ed è qualcosa che certamente continuerò a suonare. Probabilmente ci sarà un Piano Solos vol.3 mi prenderò del tempo a cui lavorarci, vorrei dedicarmi maggiormente alla scoperta di altri strumenti anche se non penso che di più sia meglio. Mi piacciono di più le musiche da camera con pochi strumenti, il quartetto è qualcosa che mi ha entusiasmato e vorrei esplorarlo di più. In un certo senso sto cercando di non darmi dei limiti anche se non voglio poi esagerare perchè qualsiasi cosa uno aggiunga alla propria musica deve essere fatta bene altrimenti risulta qualcosa di brutto e noioso. A fine agosto uscirà un album che ho appena finito con questo gruppo di musica ambient, Stars of the Lid, abbiamo composto musica con chitarra, archi e piano, è un album molto minimale e naturale.

Come si fa a comporre una musica?

Wow! Non so a volte il tutto inizia al piano. A volte da idee che ho nella mia testa. Altre volte aspetti che l’ispirazione arrivi e magari non arriva... Per me la vera ispirazione è quella che arriva improvvisamente. Per esempio alcuni pezzi rimangono incompleti per un pò e li lasci lì finchè non ti torna l’ispirazione per finirli.

Hai composto anche per il cinema, Maria Antoinette, An Amercan Affair e per Like Crazy il film che ha vinto lo scorso Sundance. Quando componi per il cinema dove ti trovi davanti immagini esistenti è più semplice o preferisci quando le immagini sono nella tua mente?
Dipende dal regista. Tu puoi scrivere quattro pezzi diversi di musica per una scena ed ovviamente ognuno ha la propria idea su quale sia la migliore sopratutto se il film ha una grossa produzione dove bisogna mettere d’accordo molte più teste. Se invece il regista si fida di te e ti conosce tutti avranno chiara in mente l’idea del film e di cosa sta succedendo in quella precisa scena e quale musica sia più adatta. In questo caso è molto più interessante perchè c’è collaborazione ad uno scopo comune. Ci sono musiche che ho composto per il cinema che sicuramente non avrei fatto per me stesso che poi alla fine ho amato, a volte può essere un processo molto creativo ed ispirante, ci si rende conto di quanti piccoli elementi costituiscano un film e di quanto sia meraviglioso quando siano tutti giusti per uno scopo comune, creare un ottimo film.

Hai vissuto tra l’Italia, Los Angeles e Berlino, credi che l’enviroment in cui ti sei trovato abbia influenzato la musica che stavi componendo?

Certamente non avrei scritto i pezzi di Piano Solos nello stesso modo se mi fossi trovato a Los Angeles. In Italia vivevo in un piccolo paesino, il mio studio era all’interno di una vecchia fattoria e quell’isolamento ha fatto si che non facessi nient’altro se non concentrarmi sulla musica. Ora che vivo a Berlino mi rendo conto che l’energia della città è completamente differente, i rumori che ti circondano o il suono del treno che sento dalla mia finestra, non sai quanto queste cose possano influenzarti, non te ne rendi conto, ma sicuramente c’è un forte impatto. Per ora Berlino è un posto ottimo per me, mi stimola continuamente nello sperimentare e mi offre la possibilità di lavorare con altri musicisti e questo è molto importante.

C’è un posto in cui vorresti suonare in cui non sei ancora stato ed uno in cui vorresti registrare un disco?

Sto per partire per la Cina dove terrò una serie di concerti e so che suonerò anche in piccoli villaggi, in posti molto caratteristici, sono molto curioso anche per il fatto che il piano per i cinesi è uno strumento sconosciuto essendo uno strumento dell’ovest e collocarlo in questi piccoli villaggi mi sembra interessante. Per quanto riguarda invece un posto dove mi piacerebbe registrare un disco direi da qualche parte sull’oceano che mi ha sempre affascinato per ciò che trasmette e comunica, e quindi vorrei davvero provare a registrare un’album in quel contesto.

Ti auguro di avere la possibilità di registrare Piano Solos vol. 3 sull’oceano.