mercoledì 23 marzo 2011
Josh McNey - Interview
Josh è un giovane artista cresciuto nella periferia californiana che trasferitosi a NY, dove ha studiato sociologia alla Columbia, da 8 anni realizza fotografie di wrestlers, cowboys, amici, amanti e sconosciuti. Quello che mi ha colpito del suo lavoro è il suo modo di fotografare il genere maschile, senza cadere nello scontato o in cliché, rivelando una spontaneità ed un’apertura all’estetica maschile, al rapporto con la natura e al sesso dominate o sommissivo.
Che ricordi hai della tua vita a Westlake Village?
Ho molti ricordi e molti legami di cuore in California in generale, è dove sono cresciuto, dove ho trascorso del tempo quando ero militare ed entrambi i miei genitori sono andati alla high school nel sud della California. Come ogni città natale ha degli aspetti buoni ed aspetti cattivi. A New York è stato difficile trovare qualcuno che fosse fan della California, di Los Angeles in particolare. Le persone pensano che sia tutta facciata e superficiale. Non sono d’accordo. L.A. e la Bay Area sono le capsule di Petri, della buona arte visiva, della musica e delle performance.
Com’è stato trascorre sette anni della tua vita nel corpo dei marines americani? Non credi sia stata una decisione dura da prendere per un bambino?
Al tempo, mi sentivo come se fossi pienamente cresciuto. Con il senno di poi intravedo una certa avventatezza infantile o per lo meno una certa ossessività dietro tale decisione. Non ero alla ricerca dell’opinione o del permesso di nessuno. Sono giunto presto alla decisione, dopo una o due settimane dall’incontro con un reclutatore, ma il desiderio di far parte dei Marines è iniziato da piccolissimo. Mio padre ha fatto parte dei Marines ed era trattato con enorme rispetto nella nostra famiglia, è semplice quindi vedere come io aspirassi al modello di mascolinità militare.
A che età quindi ti sei accettato ed hai fatto il coming out?
Da giovane ero profondamente a disagio riguardo la mia sessualità e per questo ho mantenuto molti segreti nei confronti della mia famiglia e dei miei amici. A vent’anni ho cominciato ad uscire allo scoperto con loro ed è stata un’esperienza positiva anche se alcune vecchie insicurezze persistono. Per me il coming out è un’esperienza che continua ancora. È più il fatto di essere allo scoperto che quello di uscire allo scoperto. Il primo è un evento, l’ultimo è qualcosa che tutti possono praticare ogni giorno, si tratta soltanto di fare uno sforzo per essere autenticamente se stessi.
Quando ti sei trasferito a NY quale é stata la tua prima impressione? Avevi qualche aspettativa?
Mi sono trasferito a NY circa 8 anni fa, c’ero stato una volta con il mio ragazzo che sapeva muoversi in città. Poi quando mi sono trasferito ho cominciato ad esplorarla da solo, ho impiegato sei mesi per conoscerne la maggior parte e ad un certo punto mi sono accorto che NY non è uno scherzo. Mi sono concentrato, ho finito i miei studi ed ho fatto lavori d’ufficio, è solo nell’ultimo paio d’anni che sono stato in grado di mettere tutta la mia attenzione sul mio lavoro creativo.
E in quel momento hai capito che avresti voluto fare il fotografo?
Sin da bambino sono stato affascinato dalla fotografia, mio fratello maggiore era bravissimo a surfare e ad andare in skate, io no, così ho iniziato a scattare delle foto. Col tempo mi è stato affidato il compito di eseguire ritratti di famiglia durante le vacanze e poi ho cominciato a fare moltissime foto per conto mio. Ho ricevuto molti incoraggiamenti da parte dei miei, anche finanziariamente, soprattutto quando ho iniziato. Tutti quei vantaggi erano gli ingredienti chiave da cui dipendeva il mio interesse nella fotografia, ho fatto anche altri lavori artistici con altri supporti, ma la fotografia è sempre stato per me quello fondamentale.
Mi piace molto il tuo approccio nel fotografare gli uomini, è semplice ma non ovvio, come lo descriveresti? Hai già la foto in mente nel momento in cui scatti o ti metti in una determinata condizione, e quando la situazione ti stimola e vedi qualcosa che ti piace, inizi a scattare? Come funziona?
Quando vedo le cose in anticipo si tratta di dare forma al contesto in cui lavorare, dipende, ma generalmente tendo a creare un palco su cui improvvisare, mi piace avere una direzione da seguire ma anche lasciare al valore della spontaneità un ruolo importante in cui giocare. Solitamente non vado in giro a cercare la foto, bensì ho in mente location, o modelli, o schizzi di un’immagine che mi piacerebbe creare. Inizio da lì a costruire una narrativa libera o a scegliere una tecnica o uno strumento che penso possa funzionare. Fortunatamente per quanto si cerchi di pianificare, il mondo continua a produrre l’imprevedibile, così quando è il momento di scattare, cerco di accettare la sorpresa.
Il modo che hai di comunicare attraverso le immagini lascia a chi le guarda la possibilità d’immedesimarsi attraverso le proprie esperienze, è questa la tua intenzione?
Ogni volta che qualcuno ritrova se stesso nelle mie foto mi sento lusingato. Provo in ogni modo a produrre un lavoro che riveli una mia storia personale e cerco di farlo all’interno del mio contesto giornaliero. I lavori di still life che faccio di solito li scatto nella mia casa o durante i miei viaggi. Molti dei modelli che uso sono amici e familiari, i miei fratelli sono stati tra i miei primi modelli. Ho più paesaggi californiani di qualsiasi altro posto. Non so se possa esistere una stretta relazione tra i miei rapporti personali con quelli di qualcun’altro, ma credo sia possibile.
Hai qualche ricordo particolare riguardo ad uno dei tuoi shooting che vorresti condividere?
Ho imparato una dura lezione quando ero più giovane. Ero al liceo e stavo seguendo un corso di fotografia in bianco e nero, ispirato da quella di strada e dalle storie su Dan Eldon. Immaginandomi come un fotoreporter decisi di saltare la scuola e con una mia amica abbiamo guidato fino ad Hollywood per fotografare la gente per strada. Per una mancanza di ragionamento e con leggerezza sono rimasto scioccato dallo scoprire fatto di che non potevo scattare foto di sconosciuti per strada a mio piacimento. All’inizio ero così vergognoso che decisi di fotografarli di nascosto. Alcuni mi urlarono dietro e rimasi mortificato. Decisi allora di fotografarli a distanza, ma non erano le foto intime e personali che mi ero proposto di fare. Finalmente incontrai una giovane ed amichevole marchetta che mi convinse che “l’husting” non era altro che un gruppo di omosessuali che stavano in piedi per strada a rubarsi i portafogli, diciamo, una mezza verità da parte sua. In ogni modo è stato un corso di rottura nello strano dinamismo che intercorre tra il fotografo e il soggetto. Ho imparato che le persone non sono animali dello zoo e che conviene sempre chiedere in maniera gentile prima di fotografare qualcuno.
Fai molti ritratti, c’è qualcuno che vorresti fortemente fotografare?
Ci sono centinai di persone che vorrei fotografare, non mi viene in mente nessuno che vorrei non fotografare, per quanto riguarda le celebrities al momento non sento nessun forte desiderio di fotografarne alcuna. E con questo dico anche che non mi rifiuterei di fotografare Nathaniel Brown. Per nulla.
Penso che ci sia una forte sessualità nelle tue fotografie, è lì, e anche se non è così esplicita la si percepisce, quanto è importante per i tuoi lavori?
La sessualità ha grande peso nei miei lavori, come il sesso. L’arte è uno dei moltissimi modi per esplorare se stessi. Come la sessualità è stato un soggetto enorme per la mia crescita, credo sia una conseguenza naturale il fatto che scaturisca dalle foto che faccio. Anche se non ho mai voluto essere classificato come un fotografo omo-erotico. Non rappresenta tutto di me, anche se mi rendo conto e mi va bene che molte delle mie immagini abbiano riferimenti all’erotismo o al sesso.
Cosa ti attira nelle persone che scegli per i tuoi scatti? Come li scegli?
Seguo il mio istinto, alcune volte penso di scegliere dei soggetti in cui rivedo parte di me stesso. Altre volte invece li scelgo proprio per il motivo opposto, perchè sembrano avere delle qualità che a me mancano e a cui aspiro.
C’è qualche genere musicale che ti piace ascoltare quando fotografi?
Hip Hop, Hip Hop, e Hip Hop. L'anno scorso ho ascoltato tantissimo Big Boi e l’ultimo album di Kanye, ma anche alcuni intramontabili come KRS e Wu-Tang.
Che cosa reputi sexy, che cosa ti eccita?
Le vacanze sono dannatamente sexy. Il viaggiare in città diverse ed incontrare nuove persone divertendosi e scopando in giro, quelle per me sono state le esperienze migliori.
Che persona è Josh McKey?
È un orsacchiotto.
Cosa ti piace fare quanto non fotografi?
Mi piace disegnare e scrivere a mano. Ultimamente sto mandando molte lettere. Controllo internet per qualcosa di più generico, ma per quanto riguarda gli amici e la famiglia rimango in contatto con lettere scritte a mano.
Qualche progetto futuro?
Quest’anno sarà per me una grande avventura. Ho la mia prima mostra personale a NY ad aprile. Dopodiché sarò co-produttore di due mostre, una estiva e l’altra autunnale di altri due artisti, più una collettiva che si svolgerà appena prima della fine dell’anno. Produrrò inoltre dei piccoli progetti video e lavorerò con Casa de Costa che produrrà un’altra mia mostra.
Hai trovato quest’anno sotto l’albero di Natale il regalo che hai sempre voluto ma non è mai apparso?
Sì. Quest’intervista per TOH!
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